Come può essere legittimato l'assassinio di un magistrato? Come giustificare l'eliminazione fisica di un esponente della classe dirigente e membro di una famiglia importante dell'aristocrazia senatoria? Questi gli interrogativi che tormentarono la nobilitas romana all'indomani della morte prima di Tiberio Sempronio Gracco e poi, a una decina di anni di distanza, del fratello Gaio. Entrambi vennero uccisi nel pieno della loro funzione di tribuni della plebe. La violenza era entrata nell'agone politico e, aspetto non secondario, l'uso della violenza si era manifestato all'interno dell'élite. Ne seguì una riflessione che cercò di inserire la violenza nel processo storico, giustificandone e legittimandone ogni forma di manifestazione, anche la più brutale. Venne stabilito un 'prima' e un 'dopo': i Gracchi separavano un passato idealizzato come un'età dell'oro da un presente e un futuro segnati dalla decadenza, dal declino e da una possibile fine dell'egemonia politica della nobilitas. Si mise in atto un processo, finemente costruito, di colpevolizzazione dell'avversario politico —l'accusa più grave era quella di aspirare alla tirannide— per avallare l'aggressione armata, secondo una modalità sperimentata dagli antichi, che purtroppo continua ancora oggi a essere perseguita. Il libro offre, dunque, un'analisi sulla violenza sotto diverse prospettive, che ne riflettono la complessità e vanno intrecciandosi fra loro nel tessuto narrativo: dalla violenza reale contro le persone, alla sua interpretazione come parametro della crisi della res publica, e infine come categoria giuridica e oggetto di una specifica normativa diretta ad arginarne il ricorso indiscriminato e la presenza di armi in luoghi pubblici.